Polvere da sparo e una bottiglia di rum
Le piratesse
In molti non sanno che ci sono state anche delle eccellenti piratesse a scatenare il panico nei mari. Su tutte, la cinese Ching Shih. Inizialmente prostituta a Canton, si ritrovò catturata dal pirata Cheng Yi all’inizio dell’Ottocento. Non succedeva di rado che da queste catture nascessero delle vere e proprie relazioni sentimentali e i due si misero presto insieme. Alla morte del marito, Ching Shih prese il suo posto alla guida della Flotta della Bandiera Rossa, composta inizialmente da 300 giunche, che aggregava vari gruppi di pirati del mare Cinese. Nota per le sue abilità in battaglia, la piratessa influenzò l’attività del marito quando era ancora in vita e insieme lavorarono per creare l’alleanza tra le varie flotte, rendendo l’area cinese molto più forte rispetto alla concorrenza. Ching Shih è conosciuta anche per aver dettato un codice di leggi piuttosto severe – che prevedevano, per esempio, la decapitazione per chi proponesse leggi di propria iniziativa o rubasse dal fondo dei pirati. Ching, per quanto possibile all’epoca, riservò una certa attenzione alla figura della donna, prevedendo la condanna a morte per i pirati stupratori. Venivano puniti, invece, i rapporti consensuali tra pirati e prigioniere: gli uomini venivano decapitati, le donne venivano buttate in mare con una palla di cannone legata al piede. La figura di Ching Shih ha ispirato svariate opere di autori del calibro di Jorge Luis Borges ed Ermanno Olmi e rimane tutt’oggi molto affascinante. Il 1810 fu l’anno in cui si può riscontrare la fine della pirateria cinese, a seguito di una violenta battaglia avvenuta con la flotta vietnamita. Ching Shih non è stata l’unica donna a seguire la strada della pirateria, molte altre lo facevano travestendosi da uomini.
Altre figure note sono quella della bucaniera irlandese Anne Bonny e della rivoluzionaria, sempre irlandese, Grace O’Malley. C’erano, tra le altre, la britannica Mary Read e Arabella Drummond, ribattezzata “il terrore dei mari”. La storia ha visto incrociarsi i destini della Bonny e della Read, che ebbero una relazione sentimentale. Mary Read era cresciuta travestendosi da maschio, la madre cercava di proteggerla poiché era figlia illegittima, fingendo che fosse il fratellino morto. Dopo essere diventata soldato, la Read decise di unirsi ai bucanieri sulla nave di “Calico” Jack Rackham. Il pirata britannico è ricordato in particolare per la sua Jolly Roger, la tradizionale bandiera dei pirati, in questo caso una delle più celebri: quella con il teschio e le due sciabole incrociate sotto. Si dà il caso che “Calico” Jack fosse il compagno di Anne Bonny. Quest’ultima aveva ormai scoperto la vera identità di Mary Read e le due furono sorprese a letto da “Calico” Jack ma questo non turbò i loro rapporti. Continuarono con le loro spedizioni ma di lì a poco si ritrovarono ad essere processate, insieme al resto dell’equipaggio, dopo essere state catturate. Per scampare l’impiccagione, le donne dichiararono di essere incinte per poter rinviare l’esecuzione. Mary Read era davvero incinta e mise al mondo un bambino – morì in carcere nel 1721. Non ci sono informazioni certe sul destino di Anne Bonny, che probabilmente fu salvata dal padre, il quale decise di pagare il riscatto per farla uscire di prigione.
Effetto cambusa
È indubbio il contributo che i pirati – e i naviganti in generale – hanno dato alla cucina. Non solo per le ricette che hanno creato per necessità con gli ingredienti a loro disposizione, ma anche per la contaminazione delle diverse culture. Molti prodotti li abbiamo conosciuti proprio così: patate e pomodori sono essenziali nella cucina italiana ma se la curiosità non avesse spinto Colombo alla ricerca delle Indie, forse oggi non li conosceremmo. Superando le diffidenze iniziali, molti prodotti importati sono diventati parte integrante del patrimonio enogastronomico dei paesi “adottivi”, riuscireste a immaginare la nostra cucina senza il pomodoro? La cucina in mare, senza tecnologie avanzate, è sempre stata piuttosto difficile da gestire. I viaggi non avevano una durata prevedibile e le risorse non si potevano conservare a lungo. Le gallette sono sicuramente il cibo più conosciuto: composte da acqua e farina e dalla consistenza dura, erano l’unica alternativa possibile poiché la panificazione era difficile da mettere in atto nelle lunghe traversate, in particolare il processo di lievitazione. Le navi erano luoghi umidi e sporchi e l’aglio era uno dei prodotti più preziosi che si potessero trovare a bordo. Veniva usato per le sue proprietà antisettiche e per dare “vigore ai rematori”, stremati da lunghi viaggi con a disposizione pochissimo cibo e acqua. L’aglio, inoltre, aiutava ad eliminare l’odore di putrido – che era praticamente una caratteristica delle navi -, ed era alla base della maggior parte dei piatti che hanno preso vita in mare.
Riso, farina, acqua, olio, aceto, salumi e carne salata erano tra i prodotti che si potevano conservare facilmente. Su alcune navi si potevano trovare degli animali: inizialmente procuravano il latte o le uova e venivano nutriti con gli scarti delle cucine, successivamente venivano mangiati. Il mare, ovviamente, era un’ulteriore risorsa. Il pesce non mancava mai e in alcuni casi i pirati mangiavano anche le tartarughe. La turtle soup – stufato di tartaruga verde – era una delle loro specialità. Le tartarughe venivano catturate e conservate vive, tenute capovolte per evitare che si spostassero, mentre veniva impiegata solo in casi estremi la carne di squalo, ammorbidita e aromatizzata con limone, aglio, cipolla e timo. Rum, tequila e brandy erano sempre presenti in cambusa – il primo, non a caso, è diventato uno dei simboli dei pirati per come li immaginiamo oggi. Tra le bevande più diffuse dell’epoca, però, non si può tralasciare l’angostura. Il liquore veniva utilizzato nel XVIII secolo dai missionari in Bolivia come rimedio per le febbri tropicali. La ricetta a base di piante aromatiche è rimasta segreta (tra gli ingredienti ci sono sicuramente i chiodi di garofano, il cardamomo e la china), ad inventarla fu il medico Johann Siegert e il nome della bevanda deriva dalla città venezuelana in cui si trovava all’epoca, oggi conosciuta come Ciudad Bolìvar. Per affrontare lunghi viaggi, nel XVIII secolo, l’acqua dolce veniva trasportata in barili ma non si poteva conservare correttamente e nelle lunghe tratte diventava stagnante. Per migliorarla veniva bevuta corretta, a volte con l’aggiunta di birra o vino. Molto spesso i marinai e i pirati la sostituivano con il rum, unendo più razioni giornaliere, ma questo comportava ulteriori problematiche per via della conseguente ubriachezza. L’ammiraglio britannico Edward Old Grog Vernon pensò bene di risolvere due problemi con una sola mossa: decise di annacquare il rum delle razioni destinate ai suoi uomini, aggiungendo limone o lime per prevenire lo scorbuto e inventando la bevanda che prese il nome di “grog”. Il drink riscosse molto successo, diventando parte integrante delle razioni giornaliere dei marinai, addirittura fino al 1970. Oltre a taverne e bettole, luoghi molto frequentati dai pirati quando tornavano sulla terraferma, esistevano delle postazioni in mare che procuravano loro il cibo. Potremmo definirli dei precursori marittimi dei moderni autogrill o, ancora, dei servizi di delivery: piccole imbarcazioni, infatti, si spostavano dai porti per raggiungere le navi vicine e consegnare pasti caldi – un vero e proprio miraggio per i marinai che si trovavano in mare per svariate settimane. La carne era facilmente reperibile per tutte quelle imbarcazioni che non si allontanavano troppo dalle coste e spesso era di contrabbando o il risultato di razzie. I cuochi di bordo, tuttavia, erano abilissimi a sfruttare tutti gli ingredienti a loro disposizione per esaltare il sapore dei cibi, molto spesso avariati.
Sulla pirateria esiste una letteratura molto vasta, oltre a numerose altre opere. Impossibile non citare i romanzi di Emilio Salgari, “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson, così come “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe, probabilmente ispirato alla vera storia del corsaro scozzese Alexander Selkirk, abbandonato dal suo capitano su un’isola deserta. Quello della pirateria è un fenomeno che ha radici antiche e che si riscontra già ai tempi dell’antica Grecia e dell’antica Roma. Oltre a quelli dei Caraibi e del mare cinese, i Vichinghi sono stati sicuramente tra i più abili e temuti. Nel corso del XIX secolo il numero dei pirati è andato via via riducendosi – quelli tutt’oggi attivi sono i pirati somali. Molti gruppi religiosi imputano l’avvenimento di catastrofi a un segno di punizione divina ma spesso la correlazione tra due o più eventi non implica un rapporto di causalità, che invece molte religioni tendono a forzare. In tutta risposta, il “profeta” pastafariano Bob Henderson ha fatto ironicamente notare che sì, esiste una correlazione tra la progressiva scomparsa dei pirati e il riscaldamento globale (ed altre catastrofi naturali annesse). Henderson ha come intento quello di far capire il modo errato in cui possono essere usate determinate correlazioni. Così nasce la teoria per la quale proprio in Somalia esiste oggi il numero più alto di pirati e la minore quantità di emissioni di anidride carbonica. Coincidenze? Io non credo (cit.).
Foto di Federica Di Giovanni
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