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Educazione vittoriana

Postato il 8 April 2020 da Elide Messineo
Il regno della regina Vittoria è durato per ben sessantatré anni, dal 20 giugno 1837 al 22 gennaio 1901. La situazione in Europa, in quel periodo, era quella di una pace temporanea a seguito degli accordi del Congresso di Vienna, l’Inghilterra godeva di una crescita economica e una forte espansione coloniale. Sono stati anni cruciali, che intrecciavano quelli della Belle Époque e precedevano la Prima Guerra Mondiale. La vita sociale e culturale era florida ma il divario sociale era molto ampio e c’era un altissimo tasso di sfruttamento minorile, raccontato poi nelle opere del celebre Charles Dickens, egli stesso vittima di questo sistema. La regina Vittoria è salita al trono al compimento del suo diciottesimo compleanno. L’inizio del suo regno è stato contraddistinto da ideali liberali che poi si sono spostati verso idee più conservatrici, soprattutto per via dell’influenza del marito, il principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, sposato nel 1840. Da lui la regina ha avuto 9 figli e ben 42 nipoti, che le valsero l’appellativo di “nonna d’Europa”.

 

Progresso tecnologico e sensazionalismo

 

Gli anni del regno di Vittoria prendono, appunto, il nome di età vittoriana e sono stati anni decisivi, che hanno posto le basi per tutti i fenomeni che si sono poi sviluppati completamente nel Novecento, capitalismo incluso. Nel 1851 si è tenuta la Grande Esposizione Universale di Londra nel leggendario Crystal Palace in occasione della quale, tra le novità più rilevanti, faceva la sua comparsa la fotografia. Erano, quelli, gli anni in cui il gas illuminante permetteva di avere strade illuminate fino ad essere rimpiazzato, nel 1882, dalle lampadine elettriche. Spuntavano i gazebo per bande musicali nei parchi, gli spettacoli di ipnosi e prestidigitazione conquistavano le masse, nel 1859 Charles Darwin pubblicava “L’origine della specie”. L’epoca vittoriana è nota in particolare per una morale rigida e al contempo ipocrita. È stata un’età contraddittoria, in cui hanno convissuto valori in contrasto. Non si trattavano tematiche considerate tabù, a partire dal sesso. Nonostante questo, il fenomeno della prostituzione, oltre ad essere tollerato, era diventato incontenibile, con conseguente aumento di malattie veneree, in particolare tra i membri delle forze armate. Il problema era così diffuso che portò il Parlamento all’emanazione di una serie di Contagious Diseases Acts. Tra i tabù c’era anche quello dell’omosessualità repressa, i generi erano ben distinti e l’uomo era la figura predominante. Per superare l’ostacolo degli argomenti vietati, una delle soluzioni adottate fu quella del linguaggio dei fiori, che permetteva di esprimere sentimenti considerati inopportuni. La donna, invece, non poteva considerarsi indipendente, era più debole fisicamente e giuridicamente, destinata solo ad essere educata per essere un perfetto “angelo del focolare”. In questo periodo il cattolicesimo riuscì ad avere la meglio sulle altre religioni e in particolare quella anglicana, diventando quella principale, pur essendo messa sempre più in discussione dalle scienze. Tra il 1820 e il 1873 ci fu un’importante crescita economica, che vide svilupparsi le prime fasi dell’industrializzazione – la nascita delle ferrovie e del telegrafo, tra le altre cose – e una forte espansione coloniale. Ciò nonostante, rimaneva un forte divario tra classi sociali, con la ricchezza distribuita tra le poche famiglie aristocratiche, intenzionate più che mai a tenersela stretta. Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento iniziò a prendere piede anche il new journalism, contraddistinto dai primi pettegolezzi, scandali e la passione per i casi di cronaca nera. L’era vittoriana è stata, infatti, quella in cui si è diffuso il sensazionalismo macabro. Con l’avvento di rotative e linotype si aveva maggiore disponibilità di quotidiani e una diffusione dell’informazione completamente rivoluzionata, destinata a cambiare una volta per tutte il ruolo della stampa. I giornalisti facevano a gara per trovare le notizie più ghiotte, andando a caccia di scoop e casi che facessero aumentare il numero di copie vendute: un clickbait ante litteram, per capirci. I tassi di criminalità erano già molto alti, solo che adesso trovavano ampio spazio sulla carta, assicurando bei guadagni. Pettegolezzi e scandali prendevano forma nelle sale da tè che spuntavano come funghi in tutto il Regno e anche oltre i suoi confini. Ogni storia, poi, si colorava di nuove sfumature che ogni narratore, di volta in volta, aggiungeva.

Su tutti, emblematico è il caso di Jack lo squartatore (Jack the Ripper), che ancora oggi affascina milioni di persone. La serie di omicidi commessi nel 1888 diventò la storia di cronaca nera più discussa del tempo, ancor di più perché l’identità dell’assassino non fu mai scoperta. Le vittime erano tutte donne, prostitute della zona di Whitechapel, dove si pensava che l’assassino vivesse o comunque lavorasse. Una volta che il caso divenne noto, la polizia londinese fu sommersa di lettere e tra queste ne spiccano alcune che potrebbero essere state effettivamente inviate dal killer o da qualcuno molto vicino a lui. Nel mezzo c’erano mitomani e aspiranti detective, in quel groviglio di dichiarazioni e supposizioni era difficile districarsi e non c’erano i mezzi che abbiamo oggi per svolgere le indagini. Identificazioni successive hanno portato a pensare che si trattasse di un uomo che lavorava come assistente medico o come macellaio.



Passando dal giornalismo alla letteratura, spuntavano in quel periodo i penny dreadful, che rimarcano una ritrovata passione per l’orrore, il gusto del brivido e il sensazionalismo. I penny dreadful sono racconti brevi, a basso costo, solitamente composti da otto pagine. Anticipavano la moderna fiction con testi poco elaborati, qualitativamente scarsi, destinati a un pubblico maschile. Nonostante le loro caratteristiche, hanno influenzato non poco la scrittura di autori importanti come Robert Louis Stevenson, che in quegli anni si accingeva alla stesura de “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, usando lo sdoppiamento di personalità per raccontare l’eterna lotta tra bene e male che risiede in ciascuno di noi. In quegli anni, tra i penny dreadful trovava il suo posto anche la storia di Sweeney Todd, lo spaventoso barbiere di Fleet Street portato al cinema da Tim Burton. Si tratta di uno dei primi serial killer letterari e nasceva proprio in un’epoca in cui l’horror e i casi violenti di cronaca catturavano molto l’attenzione del pubblico. Come già detto, è proprio in quegli anni che terrorizzava Londra la figura di Jack lo Squartatore, popolarissima tutt’oggi per via del mistero che la avvolge. Entrambi i casi sono stati rappresentati in numerose opere e tra le più popolari ci sono due film, entrambi hanno come protagonista Johnny Depp. Il primo è “La vera storia di Jack lo squartatore – From Hell” del 2001, dei fratelli Hughes, l’altro è “Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street” del 2007, di Tim Burton.

Si inserivano in questo filone gli scritti dello statunitense Edgar Allan Poe, una riconferma dell’attrazione che l’orrore esercitava sulle persone, con il gotico moderno che puntava più all’orrore di tipo psicologico rispetto alle opere prodotte in passato. La letteratura dell’epoca era composta da alcuni autori antivittoriani come il già citato R. L. Stevenson, Joseph Conrad e Oscar Wilde. Quest’ultimo fu uno dei volti più celebri dell’estetismo, oltre che edonista convinto e vittima della morale della sua epoca. La concezione della letteratura di allora era diversa, gli editori erano molto prudenti e per questo motivo le opere venivano pubblicate un po’ alla volta, in modo da testare l’interesse dei lettori. Gli scrittori più fortunati, poi, si conquistavano l’ingresso nelle sfere più alte della società, insieme ad altri artisti apprezzati, come i pittori. In epoca vittoriana emersero soprattutto i preraffelliti, l’orientalismo e il fairy painting, fortemente ispirato dalle opere di William Shakespeare, ma rivisitate secondo la morale vigente. Insolitamente, anche alcune donne riuscirono a farsi notare, come le sorelle Brontë. Erano i primi accenni di emancipazione della donna, anche in ambito lavorativo – una delle pioniere, in questo caso nel campo della medicina, è stata Florence Nightingale. Negli stessi anni andava affermandosi lo spiritismo, di cui Sir Arthur Conan Doyle, creatore di Sherlock Holmes, era un fervente seguace. Anche in questo caso a fare da apripista erano state delle donne, seppure oltreoceano: le sorelle Fox. Tutti gli ingredienti base del Novecento stavano prendendo forma.



Mangiare con classe

In epoca vittoriana molte abitudini ruotavano attorno al cibo e a pasti particolari, che variavano a seconda della condizione sociale. Alcuni di questi sono stati ironicamente raccontati da Lewis Carroll in “Alice nel paese delle meraviglie” (anche in questo caso troverete un film con protagonista Johnny Depp). Secondo alcuni, peraltro, l’autore aveva scritto il famoso libro proprio come critica rivolta all’ipocrisia imperante della sua epoca. Tra i piatti citati c’è la mock turtle soup, il cui nome evoca le tartarughe ma che è, in realtà, a base di vitello.

Il periodo storico era sì contraddistinto dai primi accenni di progresso tecnologico ma bisogna sempre tenere a mente che la capacità di conservare i cibi era ridotta. I più ricchi amavano fare sfoggio delle loro importazioni esotiche – il tè è la prima cosa che viene in mente, emblema delle risorse coloniali. La differenza tra classi sociali era quindi evidente anche nell’alimentazione, nella tipologia di pasto e perfino nell’orario in cui veniva consumato. Per tutti valeva una colazione molto proteica, a seconda delle possibilità. I più poveri trascorrevano la giornata a lavorare, prevalentemente in fabbrica, e a pranzo si concedevano un pasto veloce e ridotto rispetto a quello della cena, per cui era importante fare il pieno d’energia fin dal mattino. Per i più ricchi non c’era la catena di montaggio ad attenderli ma tavole imbandite di formaggi, carne e pesce – in particolare salmone e aringa – bacon, salsiccia e funghi, il celebre porridge che, tra tutti questi piatti, era senz’altro il più “democratico”. I più poveri generalmente si accontentavano di pane e birra, che aveva una gradazione molto più bassa rispetto a quella che conosciamo oggi e un gusto più annacquato. Una delle usanze diffuse era quella del low tea, un piccolo spuntino in cui andavano per la maggiore i tramezzini con burro e cetrioli, scones e marmellate, panna acida, biscotti al burro e muffin: si svolgeva tra il pranzo e il pomeriggio, durante l’orario delle visite, per scambiarsi un po’ di chiacchiere tra membri dell’alta società. A cena, come per gli altri pasti, le abitudini variavano a seconda dell’estrazione sociale. Uno dei piatti più amati dai ceti alti era la testa di vitello arrosto o bollita, in generale erano apprezzati i cibi in gelatina (alla faccia degli anni Sessanta), torte a base si carne di piccione (tutt’oggi considerata un pasto prelibato), e budini. La carne era ovviamente prerogativa delle classi più abbienti che, in pieno stile vittoriano, seguivano anche un rigido cerimoniale, lo stesso che proprio Carroll prende in giro nella famosa scena della cerimonia del tè del Cappellaio Matto. C’era un ordine per sedersi ed alzarsi – quello che il Cappellaio scombina continuamente, fregandosene delle regole – e perfino un ordine da seguire per lasciare la stanza. Quando i più ricchi andavano a teatro, si concedevano la supper, ovvero una cena a un orario più tardo, che chiudevano in bellezza con il tè o la cioccolata calda. C’è chi racconta che partecipare a un banchetto della regina Victoria era sì un onore ma anche una corsa contro il tempo. Pare che la regina fosse particolarmente vorace nel mangiare e una delle regole a tavola era che non si poteva continuare a mangiare una volta che sua maestà avesse finito ciò che aveva sul piatto. Per questo motivo i suoi ospiti dovevano affrettarsi, per non rischiare di vedersi portare via la pietanza non ancora terminata. La regina, stando ad alcune fonti, era un’amante del midollo e di uno dei piatti più famosi della sua epoca, la Brown Windsor Soup. Si tratta di un piatto a base di manzo, aceto di malto, pepe, frutta secca e Madeira. Erano sempre molto apprezzati gli arrosti, che fossero di oca, pollo o tacchino. Sulle tavole più ricche le ostriche erano un altro piatto immancabile insieme a torte di mirtilli, Yorhshire Pudding e Mince pie, tutte torte oggi fortemente ricollegate agli Stati Uniti, perché importate dai coloni. Molte di queste segnano la tradizione del Natale insieme al Christmas pudding (uova, mandorle, canditi, spezie, da servire caldo e bagnato col brandy): la festività era particolarmente amata, al punto da dare vita a un filone artistico tutto suo, quello dei Christmas Treasury. Ancora oggi c’è chi ama molto l’affascinante tradizione natalizia vittoriana, come Amy Farrah Fowler in “The Big Bang Theory” che, nell’episodio “L’infiltrazione della camera bianca” organizza una cena in pieno stile vittoriano riproducendo i giochi del tempo.



Secondo Henry James fu Anna, duchessa di Bedford e dama di compagnia della regina Victoria, a rendere popolare il tè pomeridiano a corte. La popolarità era tale che iniziarono a spuntare sale da tè negli hotel di tutto il regno, dove venivano serviti deliziosi sandwich e champagne alla fine di ogni portata. Durante questi eventi si bevevano anche limonata e root beer (bevanda a base di zenzero). L’appuntamento, ormai proverbiale, col tè delle cinque era così amato anche perché, tra una danza e l’altra, uomini e donne potevano interagire, andando alla ricerca del futuro e della futura consorte. Nacquero così anche i garden teas, nei gazebo dei giardini, immersi nel verde. In queste occasioni non mancavano le combinazioni di cibo stravaganti, che servivano anche a sottolineare la propria provenienza. Pare che la regina apprezzasse i toast di midollo – una realizzazione del cuoco Charles Francatelli, che tuttavia restò solo poco tempo al servizio di sua maestà. L’aristocrazia, tra le altre cose, amava molto il latte d’asina, poiché le donne credevano che consumandolo avrebbero avuto un aspetto molto più giovane.

Tutto fa brodo

Le classi meno abbienti, invece, pur di risparmiare dovevano lavorare molto di creatività e riuscire a fare buon uso di qualsiasi ingrediente a loro disposizione. Questo accadeva in particolare con la carne, merce rarissima, e quindi con le parti animali che riuscivano a procurarsi. Da qui nasceva l’usanza di preparare la broxy, un piatto a base di carne di animali morti per malattia, che quindi non poteva essere venduta. Si trattava principalmente di carne di pecora, poiché allora le pecore morivano per il tetano o la salmonella. Tra i piatti poveri c’erano anche le jelled eels, ovvero le anguille in gelatina, che provenivano dal Tamigi o venivano importate dall’Olanda. Si trattava di uno street food molto in voga, tanto quanto l’utilizzo di aceto e limone per coprire il sapore rancido di carne e pesce. Venivano bolliti, invece, gli zoccoli di pecora, per strada si vendevano quelli fritti: parafrasando un celebre modo di dire, “fritto è buono anche un zoccolo di pecora”. Un altro cibo gettonato erano le ostriche marinate, che potevano essere conservate più a lungo. C’era l’haggis, oggi considerato il piatto simbolo della cucina scozzese e risalente almeno al quindicesimo secolo, che era molto apprezzato. Era a base di frattaglie e per alcuni era il cibo delle streghe. Il saloop era una bevanda calda a base di farina di corteccia di sassofrasso, considerata simile al tè ed usata dai più poveri perché considerata nutriente quanto basta, per questo era molto diffusa tra le classi operaie. La water souchy era una zuppa praticamente a base di niente: l’acqua residua del pesce cotta con prezzemolo e, nei casi più fortunati, ossa di pesce. Si usava molto il latte di riso, che non era quello che conosciamo oggi, ma piuttosto un pudding di riso annacquato. Il brodo di ossa, dal quale si ricavava anche la gelatina, era un’altra pietanza diffusa tra le classi più basse insieme a pasta di aringhe e salsa di farina: come si evince dal nome, anche in questo caso gli ingredienti erano ridotti a poco e nulla. Farina, acqua, sale e semi di cumino per insaporire un po’. Degli animali veniva utilizzato perfino il sangue, poiché si credeva che potesse curare la tubercolosi. Dall’altra parte della barricata, i ricchi facevano a gara a chi trovasse il piatto più eccentrico e tra quelli più esotici spiccava il pudding di airone.

Le spezie, che iniziarono a diffondersi maggiormente in concomitanza con l’espansione coloniale, avevano una doppia valenza. Servivano ad ostentare ricchezza ma anche a coprire il gusto rancido delle materie prime andate a male: i pirati, in questo, erano dei veri e propri maestri. Molti dei piatti di allora, anche se in chiave rivisitata e alleggerita, sono rimasti nella tradizione culinaria anglosassone. Alcuni di questi, complice una buona dose di colonialismo, hanno trovato ampio spazio anche al di fuori della Gran Bretagna, come gli USA. Sempre in quell’epoca iniziarono a diffondersi i primi ricettari, prerogativa di quelle famiglie ricche che potevano permettersi di avere un cuoco personale.

Donne a confronto

Totalmente diversa era, allora, la condizione della donna. Come dicevamo, era una figura molto più debole rispetto all’uomo e aveva poca indipendenza. In quegli anni di boom economico le donne erano diventate una preziosa risorsa nei campi e nelle fabbriche, insieme ai bambini. Ovviamente le condizioni a cui erano sottoposte erano peggiori rispetto a quelle dei colleghi uomini, già molto discutibili, senza alcuna tutela e paghe misere. Le donne che appartenevano all’alta borghesia venivano educate ed istruite fin da piccole per mettere su famiglia ed essere in grado di non sfigurare durante una conversazione; erano destinate ad essere, insomma, poco più di un ornamento. Nonostante ciò, il loro bagaglio culturale era volutamente limitato ad alcuni ambiti, che fossero reputati adeguati alla figura. L’importante era saper gestire la casa, organizzare cene e feste per non fare sfigurare i mariti. Le donne inglesi acquisirono il diritto di voto solo nel 1918 e vi avevano accesso solo le mogli dei capi famiglia. Molti di quegli stereotipi sono duri a morire e purtroppo, anche se traballanti, resistono ancora oggi in molti Paesi del mondo. In generale, l’idea della donna era quella di una creatura angelica e modesta, raffinata ed estremamente pudica – incapace di commettere atti trasgressivi come, per esempio, andare in bicicletta (!). Con il primo Contagious Diseases Act (1864) le donne sospettate di prostituzione, quindi di non essere pulite, potevano essere prelevate per strada e sottoposte alla visita dei genitali. Questo si traduceva, nella maggior parte dei casi, in un’umiliazione, un’ingiustizia continua che le donne subivano senza possibilità di difendersi né di opporsi. Per chi si rifiutava, infatti, era prevista perfino la prigione. Molte di loro erano donne ripudiate dai mariti, e vedevano la loro reputazione definitivamente danneggiata. Il divorzio non era concepibile, qualche accenno di possibilità di ottenerlo iniziò ad intravedersi nel 1939 ma in ogni caso c’era sempre il rischio di perdere la custodia dei propri figli.

Le donne vittoriane indossavano abiti scomodi, pesanti, strette dentro i celebri corpetti per mostrare fisici stereotipati. Non potevano concedersi attività fisica, poiché era considerato inappropriata e pericolosa. Per questi motivi si parla spesso di ipocrisia: dietro questo rigido codice morale e dietro le mura di casa, nella propria intimità, si parlava di argomenti tabù e si trasgrediva. Non era insolito, allora, che alcune donne si travestissero da uomini pur di garantirsi un’occupazione e mandare avanti la famiglia – un esempio cinematografico è quello di “Albert Nobbs”, magistralmente interpretato da Glenn Close. Proprio perché non si poteva parlare apertamente di tantissimi argomenti e le donne non godevano di grande credibilità, Mary Anne Evans scelse di scrivere i suoi libri sotto lo pseudonimo di George Eliot. Era per lei l’unico modo di essere presa sul serio, almeno inizialmente, fin quando il suo talento e la sua intelligenza non fossero stati oggettivamente riconosciuti. Nella sua opera più conosciuta, “Middlemarch”, scriveva: “Per che cosa viviamo, se non per rendere questo mondo meno difficile per tutti?”.